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Le costrizioni_immagine di copertina





Giovanni Turra Zan


Le costrizioni



Constable E-Book







Le costrizioni




Attendono che il muscolo decanti,

che ogni graffio sia torrente esangue

di miserie. Come sfregio, ingiuriano

con parole -tante -di rivalsa,

e pesano l'ostile loro offesa

senza posa d'esser candidi.


Fanno mosse spingendo sino al letto

la cassa d’armi per l’assedio, dove

un tempo rotolavano caldi postulando

le teorie del lutto. Ora non han voglia

di difendersi dall'orda che li affianca,

che si fa taglio o rammendo

sotto il leccio che allinda l’incrocio.


tu tieni la tua faccia in alto. soffice, lasci

che il bulbo resti bimbo, che non fori

così la prima pelle e non raschi via dai pori

la tua ronda da maschio”


(vogliono che li si appelli con quei termini

avvilenti, ma ragioni non ne hanno: è da tempo

che in loro, da dentro, premono spine e aculei)




La camminata è un taglio

alla pianta del piede che sanguina e lascia

il maledire sull’asfalto. Stanno accanto

ma pensano al prossimo allontanarsi come

a cadenza di un’assenza che sfaldi.


Potranno scrivere i loro versi su stampelle,

costruire gabbie di cui vestirsi.

E prescrivere orazioni dove

sia presente ad ogni stanza un’ostia

claudicante; dove l’aggrapparsi ai difetti

sia già dato

ai progetti mai portati a compimento.


Oh velo di fine inverno, riposa

sul sudore dei santi infedeli,

fino al peccato dell’ingoio

di carne da macello.




Tornano a vedersi le impronte

del loro coricarsi: il lenzuolo

è sciolto ed è di loro la colonna;


una lampada toglie il posto al silenzio.

il buio è imperfetto e sembra sicuro


il loro passo tra il mobilio,

attenti come sono a non stare

l’uno nell’altro più di un carteggio


tra amanti che si vogliono dai continenti.

si torce il collo

e si impreca per sapere se dell'altro


si avrà la cura, la misura

d’essere ombra e anello, quando il male

sarà nebbia nel declino.


abitano lo stesso figlio

non concepito per terrore

di un miscuglio che si dà innato,


per potersi rinverdire ad ogni estate

di vacanza, che li lascia origine

e termine dell’assodato.




E per la sua nervosa adiacenza

si china a sfiorarne i piedi, accanto

all’orto dei perdoni.


soffia la sillaba madre

che fascia costole

come stretta di corde

e ramaglie da cui non sa liberarsi;


la libertà dicono sia quello strascico

delle reti infette; quel ruminare

di cartilagini nella ganascia.




Vento a voi come a profilo

il definirsi di strettoie

in pochi passi e scricchiolii

di legamenti. Una sedia

al sedere di uomo largo

senza spalle, che non muove

e non si mura e non sente argine

alla fatica dell’ordine.


Non tiene unione di acque e torba

e del profumo che le sposa al gelo.


Poco sa di quel poco di foresta

che rimane; sa del tradimento alla croce,

dei solchi lasciati dal carro sul ghiaccio.

E vi getta il sale e per giorni a venire

non si vede il tempo (essa è una nube)

e dice di cercare il punto dove punge

il codice della neve. Lui è la calma

di dentro; di fuori un’orazione di colpe.




L’uomo fu visto scaricare ceneri

sul ciarpame alla discarica, e piangere

percolato

come se vi spremesse il male bruttissimo

della bile; se la sua tomba fosse

nella luce anzi incendiata e lui

rivelato santo, ecco avrebbe

un dio al guinzaglio ad apparirgli.


Oh, se tutto ciò

abbondasse alle tasche nel giorno

del dissesto. Impressa a torchio,

sentirebbe ogni sillaba concavarsi

come un laccio al sesso; chiamare

a sé il freddo di un calicanto stretto

al petto in un disgelo che non lasci

scampo al torto mai espiato.




Nella prima costrizione la carne

è lessata e ogni punta d’astio fissa

al chiodo, senza sopravvenienza;

ed è sospeso nell’attesa di salsa

in agrodolce, il pianto.

Anche un’anoressica plagia

il controllo e serve d’oro

sul vassoio il canto.



Nella seconda vi è un volo con trillo

di luce, l’essere di un altro l’oggetto

tra gli oggetti lustri e ribelli,

presi con forza e da questa nettati.

Lasciando al cielo sordo il manto

ecco che la terra non è più casa

ma salto su di un piano vacuo, sul cemento

dove ha termine la corsa al vanto.



Nella terza costrizione l’incerto è prono,

il piatto sfatto più di un letto, e non si sa

al tavolo quale legno sia fratello.

La famiglia sa d’assaggio piccante,

con gli stomaci come boccole

in catena, con i morti dispiegati

sul comò, a bucare il pianto, a farne

pietanza da servire al fuggitivo.





Corda di canapa sei donna

appesa all’arco dei portici

con legacci al càmice di forza


(a cingerti sono polveri)

Tenti d’appenderti in dondolio

(sei l’altalena dei costretti)

e cadi di gluteo e scatti in alto

(dici degli umani sono mosci).




Misero tutti gli inetti


alle materozze. Pressati

sfiatavano d’aria a farvi crescere

gli stampi. Più li comprimevi


più generavano dei buchi, ovunque,


anche negli occhi. Allora

si stava a debita distanza dall’area

dell’inganno, vicini ad un muro


di pietre e muffe

(anche gli odori erano imbuti)





Da sopra la barella tieni le tempie

al buio, nel bianconero del tempo

rileggi alla luce i termini di una

fuga dagli affetti e i ricordi, i ricordi


per orificium exit


dovuto dicevi a vasocostrizione,

alla riduzione del lume nelle vene;

e senti la contrazione che si elastica,

la pressione che ti irrora il latte

andato a male per l’incuria.



premi ad ogni ferro il collo al basso,

al lento piegarsi a ritmare

il battito del pube, fino

allo sporgere dell’osso.





Quale vanga ora si abbatte sulle membra

e ne fa poltiglia? terra di un sé

incastrato tra cavi, forse

a cavarne il senno

che più non ha richiami.

Eccovi, tra la femmina e il cielo

c’è una carne che rotola al termine,

che si fa frutto e cedimento.


La lista dei perdoni ha lesioni

severe, e nomi atoni che

ingoiamo e che veloci si vuole

compiano le traversate dei mondi

intermedi; infine si gode

a digerire peccati atossici

che sarà semplice, semplice

come lasciarsi ingoiare dalle mani.




Si imparava oddio che l’alfabeto

si faceva con gli occhi e una serie

di quadretti in fila, di ocra e giallo.


Non ti muovere se ridi resta ferma

e non dici con le mani ma con la testa

penzoloni alla tua destra; a domanda,

rispondi con le palpebre e coi capelli

già che l’unghia non risponde

ai tuoi comandi.


Stai nella fortezza e ti arrendi

al bisogno di una tana di suoni

ma dici che il sesso ti scotta come

a quelli che non hanno la tua pienezza.




Tra le somministrazioni il tempo

di una pesca con il piccolo d’uomo,


l’odore di padre da annusare

con il nero a roderti gli organi,

gli immobili tubi che con dieci erbe

defecano gli scarti.


Arrenderti ai manuali, ridurti

agli schienali, non ti riconduce alle acque

della roggia dove godi del figlio

come buonissima sentenza;


lasci che il neoplastico ti scolpisca

tutta l’ultima volta?




Un gene dà luce all’incubo e putacaso

che s’allontani dalla sua catena

e venga al buio senza ossigeno.

Allora si sfrondano alla paura

le apnee notturne, ogni risveglio

sia il rituale delle croste di rinite

in dote alla notte

con un etto di freddo incartato

e messo sotto l’albero di famiglia

dell’acaro tuo mai domesticato.




Ascoltandovi dire e ridire

della vicenda che vi ammanca

è forno che crema la carne

anche con parola al laccio

che costipa nei pori la calce.



Venite, non venite, state altrove e

non guarite: qui se volete si cede

ai morti, a risalirne nuovi e concimati.



(ora basta, stringete ogni lamento:

il grano cresce ancora dove vi fu incendio)





[L’alba è una tavolozza di Seurat

quando un pallottoliere di lumi grigi

viene al primo saluto

tra le persiane al levarsi]


Hai rivisto questo tetto, una menzogna

dal cielo, giù fino all’incontro dei pulpiti.

Se non vedi l’alto, la vastità si decompone

in briciole al conguaglio; in pezze di forza

a farne coperte per una detenzione.


Vive così il pendolo, tra le sbarre

che si segano, i giorni annotati in bianco

senza posa, senza un conto.

Ci vorrebbe un salto delle ali

nel corridoio dei ricomposti

a consumare pasti preparati per centoeventi;


e una cifosi delle acqueforti

a pennellare i neri nelle notti,

che sono bagni di seppia

nei gusci degli affaticati.




La fatica si compiva negli angoli

delle genealogie, nei quadrati

con i baffi, l’incastonato con il bianconero

da colorare. Al vertice i legami

perdono la soluzione, chiazze di verde

le vedi dici sfuocate, senza monete

a ricomporle.


In questa casa sei vista lo sai, di te

non sfugge alcun talento

(anche urlare è un raccolto).

E ci sono regole come posare

sacche nelle salvezze, dove

non si tocca fondo e il sale

sostiene te, frutto.




E ancora il morire veniva con picchi

di distacco, come un barare sulle tombe,

come si fa nel portarne il carico di stordimento.


Perdere quella casa era abitare il vestibolo

di una fossa di ceneri; e mica miglioravi

il tuo fardello, ma trattenevi al ventre i vuoti

ed erano zavorre di mute pregne

di umiliazioni. Solo tra gli ungulati

ritrovi la natura e sulle gambe tozze

porti il dolore dei santuari.




La grande puzza suonò alla porta

e fu rifugio delle narici; viene

viene di chiaro, al galoppo dell’onda

come uovo fecondo che origlia

e sa che è male, che è male.


C’erano nubi di torba quel giorno, alte

ad oscurare i nomi dei nati,

del sottopeso che li costrinse al banco

delle carni, a mostrare di sé rotazioni

in gioie di adesso, tuttavia.


L’odore di rimasto abbraccia il tedio

delle carrucole strette coi denti

a sollevare con la noia gli obblighi.


L’immagine si ristora nella casa

delle ostie e sa che c’è il freddo


a gelarne la scena,

a cercare nelle posture la bocca

del verbo, ad alzare uno sbuffo di sangue,


segno pavido della catatonia del senso.




(altre costrizioni)


in forma di suite del dolce tempo




Apertura





A conclusione dello scuoiamento


(immenso strappo fattosi rito)


si effettua lo spurgo e d’ora in avanti

non si paga dunque un fisso

ma si contratta ogni tempo,

che sia alla base dell’odore tolto,

come di città che offre

il suo scarto.



A conclusione dello scuoiamento



s’apre la gara delle rivendite

pare estorte ad ogni scontro

-reso bailamme –

fino alla serrata del macello.





Da quando alla tabula hai sostituito

una rivelazione, non sei più tu,

cara, la corsa coatta, la mania

che ribalta una stanza e ne fa cesto


d’episodi in cui cogliere i pianeti

andati in frantumi. Negli snodi

che fondano i nostri patemi,

non più i progetti saranno

patrimoni, ma rintocchi alla morte

degli amici, di noi martiri di noi soli,

lasciati ai suoni; smunti e secchi

ma buoni come macco di fave nei brodi.




Sapendo dove essi sono





Navigante, abiti la plancia con il capo

a picco e covi un pensiero di metallo

con gli occhi sull’attenti, lungo la cassa

che tiene la pompa. La tanca ha un carico

che il ponte non sgancia, e non hai rotta ma

solo sguardi in alto -segui del vento il puzzo navighi

a naso quindi, e se piove sbavi, come se

lo scialacquio fosse invalso negli anni.


Slombati e portati addosso l’inganno


(sia impresso sulla costa l’abbandono)


Non hai terra cui imporre la prora e perdi, perdi

ancora e per sempre, indesiderato ammarri,

nudo di colpa e da questa mai varato.




Accusi la pelle variolata d’essere


semenza del contagio; eppure

in un istante il contatto fu un vuoto

ancor più gravido

dell’ovulo e la coppa si riempì

a celebrare l’affitto dell’idillio.


Se ora perdi il canto caspita

non emettere sentenza a pieno,

non dar adito a questa artroscopia

del tempo che si grattugia all’uso.


Piangi dici quando siamo felici.




Sapessi oh natura di che lamentarti,

avresti un lancio ed un danno

per ogni sasso da fromba.


Stabilisci il fermo, e che non si volti

pagina a caso, a ritrovarti segnalibro

essiccato in memoria dell’ultima mano;

si rileggano le tue partite

senza assi da strappo, con nell’addome

la tentazione di una penetrazione,

di uno scasso.




Si chiamarono in correità quella volta

in cui lo smacco rase la pelle

al loro unirsi. Per la miseria

si rannicchiarono accanto al ceppo


e ne videro il germoglio arso,

così simile a tutto il falso

lasciato ammuffire nell’umido

di ciò che era loro apparso.



Avevano acquisito i litigi, le mosse

disoneste, e pur stizziti perdio

rintoccava in loro di una sonata il canto,

come prima d’allora,



tra il fogliame ne avevano


l’uno all’altro solfeggiato l’Allegro.




Duetto





La testa nella pioggia è un pezzo di panfrutto

eroso dalle trame. Ora servono

le tue cariche antigrandine a distogliere

l’ossessione dai ghiacci, che godono al bombardo.

Tu stai tra noi ma cerchi le correnti

in alto, dimentico che un anno fosti scaltro

a schivare i turbini.


Le antenne erano trespoli

e lei ti porgeva vassoi di foglie e pallottole

di gelo, chiedendoti una storia in cambio.


L’avvio del servizio al tavolo la distoglieva

dai tuoi affanni e arrivavano clienti dal Baltico

a cercare filetto e platessa in pastella.




Cara, alzati sui trampoli,

urta l’ala dell’anatra che vira

sulle villette a schiera

e girati, fai una piroetta

che ti scuota. E’ l’ora del pasto

nella mensa degli annuvolati

a cui, ricordi, facevi da guida

nei cumuli. L’orbita

del cenacolo è di grandine,

di cubi di ghiaccio

che adoperi come lenti

a deformare le rotte

che pratichi.


Balli come il selvaggio

e di quello hai colorito e sapere

di come si cuoce un uccello

in mille modi, tutti piccanti.

Vieni dunque avanti, cara

apri il pugno o togliti

il guanto, che di fronte


hai la stagione dei bendisposti.




Le stanze s’alzano in volo, in rivolta,

con le orbite parallele al mondo

di sotto, e chi cuoce sta

con il fornello tra i cirri;

fulgido, apre gli scorrevoli


e passa lasagne agli uccelli.


Dio come vorrebbe si udisse

il verso delle vongole

a spurgare. Si starebbe in casa

anche vuoti di fondamenta


o con il lamento d’una colonna

di aliti; con quel gusto di buona

famiglia, la risurrezione dei bolliti

che è carne nel volo di linea, decollo

gastronomico o igiene del colon

per la festa delle fave.

Solitaria e non trigenerazionale,

con tutti i rogiti firmati, gli allacciamenti

fatti, pure il wi-fi che su nei cieli

si chatti e non s’inquini

d’elettromagnetismo i figli.


Si apre la porta d’ingresso all’ospite

alato – nucleo che vola radente

ai satelliti -che vede dei pianeti

e i calchi e i limiti.




Avessi la penna, cara, scriverei dei congrui modi


della guerra -dopo la corsa a ripararti

aprivi oblò di lavatrici e ne traevi

pezze ed asciugamani, stendendoli

sulle mitragliatrici ad arrugginirsi;


e se pioveva fasciavi i mortai con le mani.


Non ci sono più palpitazioni, le immagini

che solleticavi all’ora di cena. Lasci ora

che si rientri nell’inespresso,

nel pozzo della prigionia di prima

della liberazione. Lasci che scivoli

il gesto e la fine, la fine della poesia.




C’erano quelle ruminazioni, i disturbi

del riportare in bocca il digerito

e vederlo rifiorire in nutrimento.


Si usava strisciare sui vetri

osservare l’ingrandimento, considerarlo

un lago riflesso e sventolato dal grasso.


La rottura era un taglio nel mezzo,

l’obesità di un globulo bulimico

senza condotta espulsiva, con l’angolo


trattenuto nella sua ampiezza e una fede

nel morire lento. Cavati i pezzi

d’osso dal buco, li definirono “belli” -anzi


puliti” -ma inetti nell’emettere i figli,

e rivolti, ora e per sempre, ai vuoti fertili.




Chiedi perdono e senti il brivido della cancellazione,

la prezzatura dell’atto -il più svelto -e di uno solo


da cui vergogna ti ripari.


Cadi mille volte e sono cento quelle che sfondano

il varco nella cassamorta a rovescio, da riporre

nel giusto senso, per non confondere amplessi

e congedi -le direzioni in cui la porta fissi

le rotte ai polmoni, alle dita tese al supplice

a chiedere pezze da giocarsi, mentre promiscui


si ammassano i pesi.




Circola nelle introduzioni e sbarra

con il muco gli occhi -verte sui fucili storti

un’agenzia di stampa -i boschi divelle

e raspa, occupa i cantoni senza turni,

tiene in segreto le lingue, sbava se serve.

Arde infine tra le coperte e sguscia

come faina si dice, come santa serpe.




Tasta la tua piccola, cara, la fai soda,

la palpi e la durezza ti informa

sulla paura e la potenza. Lei s’impone

alla vista,

tergiversa; se poi le anche impugni

ne frughi la testa -le dita come pistola e

vuole si dipinga con lei il suo simbolo

diurno esserle nudo assone

d’accompagnamento. Saperla in vita

a tirare in cielo le mani, a sedersi

tra gli equini solari con gli indiani.




Consolazione





Giusto al fondo del gioco

stava quel lembo di camicia

che si odiava dover stirare per tema

di svellerne le pieghe, di farle

al calore sanguinare.


Il giorno sa di pastoia, di frana

e melma nell’acquasantiera,

che solidifica e si decompone.


A quel punto si è già rotti in tanti

rintocchi, ed è così che si perdono

i confini, come tra immaturi mitocondri,

e le vie s’incavano come striature

di una saldatura, come l’arco di una rivelazione.


Il figlio s’annoia nella casa e non l’abbandona.


Si porta il lutto al braccio, come laccio

emostatico che ingrossa le vene a valle

a farne acquedotti di liquami, di concimi

da spargersi sui metacarpi fossili.




perdona quel rifiuto del letto e del tetto:

sai che serviva a marchiarci il braccio

e a farne

misura e peso di ogni diverbio.

fai ora in modo che tutte le bestie

nella stalla ridano della nostra goffaggine


del modo cinico


che avemmo di programmare il termostato

nella grotta del santo,

di passare al raggio rosso il codice a barre



della simbiosi del figlio con il gruppo.


la gente sta lì a pisciare nella roccia



a tastare il male che incalza, a passare



alla lente la propria biologia minima, che batte,

batte e annuncia che si deve a te – cara –

il dono di percuoterci il petto; dello sterno lo squarcio”.





Dopo lo scontro, lo stomaco s’inarca

in moina: un acido l’abita e ne sugge

le piene, macinando la madre come organo

si dice che sgobba e imbarazza, che cede

come mollica nell’ora dello scotto.



Ostico, il tempo si eterna

e arde l’atomo, si erige a residuo

bellico che ammassandosi sverna.

Stomaco sa che i cancri danno alle ulcere

scampo. Che rapiscono le ultime lastre,

al ritiro dei referti.





Ci fu, mesi orsono, quel peccato

d’invadere i paesi

rifiutandone il mestruo

che serrava i cantieri.


Tu, cagna golosa, non trattenevi

il cerchio su di un piano, e ti spostavi

cercando il pianto di un suono.

Ora paghi con stigma

che non è fiume dei fedeli d’amore

ma onda anomala, madre carnivora

e ribrezzo; porta delle pupille, non fai

alcun sconto a quel “non sei più tu

che voglio”. Con te tutto il giorno

si sfibra e tu non sali più in alto a scavare

i nembi; stai su quel piano piatto

(in cui Cartesio veglia la sua sogliola

impanata -pronta alla griglia)

a nutrire il pudore di chi ti fa orgia.




Chiusura





Dilapidato il mucchio eccolo anteporsi

al luogo dove stanzia senzatetto

e spreme il succo

in fonte di luce, in arra

di servaggio per il figlio. Esige

un affrancamento e per questo sfrigola

nel gene, giunge al luogo dello scorporo

dal cui fondo si riesuma come morchia,

come bestia da esperimento.




Ancora carie e impianti marci,

ancora, cara, abbracci i debiti

come fossero salvezza ai pianti

autori dei nostri malanni;

e dove ti insedi, trasformi in flutti

le tracce dei moribondi, sali

e smonti dall’impalco dei mugugni,

affastelli rotule e legamenti,



fai che cozzino tra loro gli amori.







Giovanni Turra Zan è nato nel 1964 e risiede a Dueville (Vicenza). Si è diplomato al Conservatorio musicale vicentino “A. Pedrollo” ed è laureato in psicologia. Ha pubblicato le raccolte Senza (Agorà Factory, Vicenza 2005) e Stanze del viaggiatore virale (L’Arcolaio, Forlì 2008), libro finalista al premio letterario “L. Montano” nel 2009. Vincitore nel 2005 del concorso nazionale “Poeti per Posta”, organizzato dalla trasmissione radiofonica di Rai Radio Due “Caterpillar” e da Poste Italiane, nel 2007, con Il lavoro del luogo, vince il concorso “Pubblica con noi”, indetto da Fara Editore di Rimini, che lo pubblica. Nel 2009 ha vinto il premio internazionale di poesia “Renato Giorgi”nella sezione “Cantiere”. Sue poesie sono incluse in opere collettanee e in numerose riviste: Poeti per posta (Rai Eri, Roma 2005), Il segreto delle fragole (LietoColle, Faloppio 2006), Pubblica con noi 2007 (Fara, Rimini 2007), Il corpo segreto (LietoColle, Faloppio 2008); Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est (Fara, Rimini 2008). L’inedito “Le costrizioni”, qui pubblicato, è stato finalista al premio “L. Montano -Anterem”, edizione 2010.


La seconda parte di questo libro, (altre costrizioni) in forma di suite del dolce tempo, è stata pubblicata con il titolo “A sweet time suite” nell’antologia “Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est”, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore, Rimini 2008. Compare qui ampiamente rivista pur mantenendo la struttura originaria. L’autore ringrazia Alessandro Ramberti con Fara Editore per la gentile concessione.


E-Book


autoprodotto nel mese di dicembre 2010

in Dueville (Vicenza).


Front and back cover

Doolin” by

Jane E. Smith -London (UK)



www.janeillustration.co.uk

janeillustration@blueyonder.co.uk



L’autore ringrazia l’amica illustratrice




Prezzo € 0,00